mercoledì, gennaio 16, 2008

Sei

Sei così così bella mia bella signora attenta a quello di cui si sta discutendo, dagli occhi scuri con quella fiammella al centro che è la luce dell’anima? Sei chiara come le parole competenti che dici? Sei come il vestito che indossi, semplice? Saprai portarmi rispetto senza che ci renda distanti? Saprai amarmi e lasciarmi libera? Lascerai un biglietto del tipo “passa in tintoria” oppure mi lascerai sullo specchio un post it con scritto “sento tutto i brividi del mondo” ? Saprai richiamarmi se ti spengo la voglia di allegria, trattandoti male e lasciando per casa portacenere pieni di sigarette? Ti riconoscerai e io potrò riconoscermi in te? Sei domande. Chissà chi sei?
Sei una signora che accompagno a casa con la scusa di un passaggio come si fa fra buone amiche e alla porta perché è sera tardi. Ma poi ritorni da sola all’auto. Tu aspetta che ci sia salita. Non se ne viene fuori. Sei una signora un po’ maliziosa che invece di ringraziarmi e augurarmi la buona notte, mi tira in casa. Mi solleva e mi siede sul tavolo. Con il viso mi scopre il seno, con le labbra io faccio lo stesso con te. Una carezza che va dalla mano al polso. Passa dal basso la via più lunga per arrivare al cuore, collegali tutti al cervello signora mia cara e rimaniamo in un abbraccio immobile, sospeso, che dall’alto guarda tutto sotto di esso radente, quasi piatto. Una parola che le lacune del linguaggio rendono volgare, l’intimità fa di essa quello che per noi è il dono ad occhi chiusi, il punto di tutto, il buio che nasconde il rossore della fatica e dell’eccitazione. Leccami. Non improvvisamente, non come se azzannassi, altrimenti non è più un’altra cosa. Aspetta che il caldo del viso, la promessa, schiuda il fiore, che l’ansito del respiro inumidisca la pelle. Srotola con la punta della lingua tutto quanto scritto nei giorni da me e da te, anche da sole, in luoghi e momenti insospettabili, nella rabbia per la quale solo questo ti faceva credere potessi così risolvere tutto, nella commozione della confessione più vera, nella vergogna della parola e dall’atto impronunciabile fuori dal buio e dall’intimità o che per lo meno così dovrebbe essere. Chi se lo immaginava è un’ingenuità a cui non crede neppure un bambino. Leccami non come un gatto che sorbe il latte, quello è il servo; non come il goloso lecca il fondo del piatto ormai vuoto, quello è il satiro in fretta nell’angolo del portone. Leccami con delicatezza perché la morbidezza non è detto non ferisca e se ferirà non ferirà lì. Molto più su. Più su sta anche la mappa del passeggiare discreto in punta di lingua che ti conduce alla porta dove muscoli uterini ti accolgono. Attenzione che il momento in cui lo faranno, per sapienza o per istinto, ti svelerà se ti accolgono, ti fanno la grazia di accoglierti o se ti respingono perché hai approfittato di loro. Leccami fino a leccare le ossa, i muscoli, gli organi così che tutto si muova verso te. Leccami alternando la forza alla quiete, insistere oltre misura è affrettare e in fondo pensare a sé stessi, esitare è umiliazione: avessi sospettato l’una o l’altra non ti avrei mai chiesto leccarmi, avrei potuto benissimo fare da me. Se sei e se noi avessimo saputo, se tutto stava in questo, quanto tavoli di meno avremmo potuto collaudare.

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